Teatro di Chiaberra, Savona
Programma: M. Ravel – La Valse L. Bernstein – West Side Story Suite I. Stravinskij – Le Sacre du Printemps
Le tre composizioni eseguite nel concerto sono notissime e da annoverare tra quelle più emblematiche del secolo scorso. Quella che è, invece, “inaudita” è la veste nella quale vengono eseguite che si basa solo in p arte sulle versioni degli autori. Sia del Sacre che della Valse esistono quelle di Stravinskij e di Ravel per due pianoforti e pianoforte solo. Queste, sebbene eseguite in tempi abbastanza recenti in concerto, sono particolarmente preziose per l’approccio e la letture di opere orchestralmente piuttosto complesse che la scrittura pianistica permette di avvicinare per un primo approccio. La scrittura pianistica “in bianco e nero” se elimina il colore orchestrale, mette a nudo strutture ritmiche ed armoniche con una chiarezza assoluta, così come l’aspetto di una foglia o di un insetto sono meglio rappresentate da un disegno abilmente eseguito che da una fotografia. Tra gli elementi coloristici e ritmicamente importanti, resta, però, fuori la parte riservata alla percussione che notoriamente ha avuto nel Novecento un ruolo importantissimo. Partendo da questa considerazione appare molto solleticante e pertinente la proposta del Trio Diaghilev che, accanto alle versioni pianistiche originali, recupera le parti della percussione previste per le esecuzioni orchestrali. In questo modo assieme alla pura struttura dei brani affidata ai timbri pianistici, si possono ascoltare gli infiniti colori della parte percussiva. Un capolavoro originale di quest’insieme è la Sonata per due pianoforti e percussione di Bela Bartók che rappresenta un punto di riferimento per quest’inedito accostamento. Un altro elemento da mettere in evidenza in relazione ai concerti del Trio Diaghilev è quello gestuale da sempre legato agli interventi della percussione. Si pensi solo al magistrale uso fatto da Hitchcock nel film L’uomo che sapeva troppo dell’immagine del suonatore di piatti pronto per il suo intervento, ma che attende il momento giusto per entrare, attesa che viene sfruttata nelle sequenze che precedono il colpo di pistola che il suono dei piatti è destinato a coprire. In qualsiasi concerto che richieda più di un percussionista, l’attenzione è inesorabilmente legata ai movimenti dei musicisti che provano l’intonazione, cambiano le bacchette, afferrano e depongono quei piccoli strumenti definiti nel loro insieme “accessori”. I timpanisti prescritti da Berlioz sono in definitiva più clamorosamente originali nell’immagine che nel suono. Sottolineiamo che il percussionista del Trio Diaghilev copre con grande abilità da solo ruoli che in genere vengono in orchestra distribuiti fra più esecutori. Distinguiamo le parti dei timpani da quelle della batteria vera e propria. I primi sono membranofoni a suono determinato e sono normalmente affidati ad un esecutore stabilmente addetto alla loro esecuzione. Nel Sacre ne sono prescritti due, ma la parte di ciascun esecutore è completa; le caldaie da usare sono cinque, una delle quali particolarmente piccola per produrre suoni acuti. Gli altri strumenti sono tutti a suono indeterminato tranne quelle che Stravinskij chiama Piatti antichi in lab e sib e che vengono anche detti crotali. Un uso splendido di questi strumenti si trova sempre in Stravinskij nel finale delle Noces. Altri strumenti di metallo impiegati sono il ben noto triangolo (che è capace di farsi sentire anche in un fortissimo orchestrale) e il Tam-tam, strumento il cui nome richiama i tamburi della foresta, ma che invece indica nella nomenclature “colta” quel grande disco di metallo sospeso che domina l’orchestra dall’alto e il cui suono è come un grosso “crash”. Altrettanto nota è la grancassa alla quale, come genere di strumento, si affianca il tamburo basco che è quel piccolo tamburo ad una pelle nella cornice del quale sono inserite coppie di piccoli piatti metallici: di conseguenza lo strumento partecipa sia delle caratteristiche dei metallofoni che dei membranofoni. Vi è poi il guiro, piccolo arnese di legno con una superficie zigrinata sulla quale viene sfregata una morbida assicella di legno o altro, atta a produrre un caratteristico crepitio ben noto ai cultori di musica latino-americana. Per quanto riguarda Ravel, bisogna aggiungere alla lista degli strumenti di cui sopra, altri ben noti personaggi del modo della percussione: tamburo, nacchere e piatti, usati, come gli altri strumenti presenti in partitura, in modo esplicitamente coloristico. West Side Story (1957), sia nell’originaria versione di musical sia nella successiva trasposizione filmica, è stato, incontestabilmente, il più grande successo di Leonard Bernstein come compositore. Egli stesso realizzò nel 1961 la trascrizione orchestrale di alcune parti del musical intitolandola Symphonic Dances. La versione eseguita dal Trio Diaghilev non ha nulla a che vedere con queste: si tratta di una reinterpretazione originale (1995) dovuta a Mario Totaro con la collaborazione di Ivan Gambini. Il lavoro si articola in tre parti. Dal punto di vista strumentale emergono quelle che vengono indicate come “tastiere”, anche se in realtà non hanno tasti, ma regoli di varia lunghezza e spessore atti a produrre suoni di diversa altezza; lo xilofono e il vibrafono sono i più importanti della sezione. Un posto di rilievo occupa, com’era logico attendersi, il suono della batteria com’è inteso dalle formazioni di ispirazione jazzistica e com’è impiegato da compositori diversi per suggerire un’ambientazione riferibile ad un contesto urbano novecentesco. In particolare, il piatto sospeso viene percosso con una bacchetta articolandovi il classico ben noto ritmo swingante; un set di tamburi senza corde di varie dimensioni costituisce la “sottofamiglia” dei tom–toms, di colore essenzialmente scuro, ben diverso da quello del tamburo detto snare drum o side drum dotato di corde metalliche che, a contatto con la membrana inferiore dello strumento producono un forte e penetrante ronzio quando si percuote la pelle superiore. Un’altra sonorità caratteristica e incisiva è quella dei temple blocks, un set di strumenti di legno a forma di “testa di morto” che vengono percossi con bacchette dando a ritmi anche complessi una notevole chiarezza percettiva. Mauro Balma